- Publisher: Self-Publishing
- Series: Autoconclusivo
- Available in: Ebook, cartaceo
Trama
Amo la mia vita, la fama, gli autografi, le donne sempre disponibili, ma soprattutto amo il mio lavoro. Eppure, dall’ultima gara del mondiale di Formula 1 ad Abu Dhabi, mi sembra di aver perso tutto.
Il mio appartamento mi va stretto.
Il mio team mi ha voltato le spalle.
Firmare autografi mi infastidisce.
E le donne sono ancora disponibili, ma a me non interessano.
Ho un piano B. Uno che potrebbe, però, rovinarmi, in ordine: carriera, reputazione e titolo. Ma, allo stato dei fatti, è l’unico che mi fa venir voglia di mettermi in discussione. Di dimostrare una volta per tutte che ciò che James Woolf tocca diventa oro.
E poi c’è lei, che è una distrazione troppo grande, una tentazione che non posso permettermi di assecondare. Perché io ho un unico obiettivo: vincere di nuovo il mondiale. E niente mi fermerà, nemmeno lei.
Prologo
Mi annoio a morte.
James William Woolf taglia la linea del traguardo e si scatena l’inferno. Sono seduta dentro ai box, su una sedia di plastica che ho sistemato in un angolo, e butto la testa all’indietro.
È finita. Finalmente.
Mio fratello Brandon è ancora al muretto, scaraventa le sue cuffie contro uno dei monitor, poi, rendendosi conto che una telecamera lo sta inquadrando, sfoggia uno di quei suoi sorrisi che ingannerebbero anche il Diavolo.
I meccanici sono scappati fuori dai garage per recuperare le monoposto e accogliere i piloti in testa alla pit-lane, io faccio un lungo respiro.
Un’ora al massimo, Charlotte. Devi resistere solo un’altra ora e poi sarà finita.
Mi faccio coraggio e mi alzo in piedi, Brandon mi sta già cercando con gli occhi. Io e le mie Manolo a punta, fucsia e tempestate di cristalli, sfiliamo lungo il box, incuranti degli ultimi meccanici rimasti dentro. Il caldo umido di Abu Dhabi mi fa sciogliere il mascara, mi fa sudare i palmi delle mani.
Brandon mi viene incontro.
«Dai, sbrigati, cazzo! Voglio andare a congratularmi con Woolf».
«È proprio necessaria la mia presenza?».
Mi scocca un’occhiata ostile, di quelle che non ammettono repliche. Peccato che su di me non abbiano alcun effetto. Non ho paura di lui e trovo la sua arroganza così patetica da farmi ridere.
Mi prende sottobraccio e, a denti stretti, mi intima di sorridere.
«Fottiti», è la mia risposta.
Ci dirigiamo verso l’area transennata, dove intravedo l’Invincibile esultare in piedi sul muso della sua Raptor grigio metallizzato, mentre una scarica di fuochi d’artificio illumina a giorno l’intero circuito. Woolf punta un dito verso il cielo, la folla lo acclama, urlano il suo nome, e lui spalanca le braccia come a voler accogliere tutto quel calore in un’unica volta.
Lui è il Dio onnipotente.
Ancora con il casco in testa, scende con un balzo dal telaio e si lancia contro i suoi meccanici che lo prendono al volo e lo sollevano in aria. La sua ultima fiamma sta piagnucolando, si fa consolare da alcuni membri della Raptor Motors, è così commossa da sembrare sincera. Mi auguro per lei che qualcuno si sia preso la briga di immortalarla, perché domani sarà già acqua passata. E sarebbe davvero un peccato, perché indossa un delizioso abitino di Alexander McQueen che merita di essere celebrato.
Mio fratello stringe la presa sul mio braccio e io cerco di divincolarmi.
«Mi stai facendo male!».
«E tu cammina più veloce, Cristo».
Come se fosse facile correre su dodici centimetri di tacco mentre meccanici e addetti ai lavori in fibrillazione ti superano da tutte le parti.
«Ma cosa te ne frega di Woolf!? Ci hanno massacrato anche quest’anno. I tuoi stupidi piloti sono arrivati ultimo e penultimo! Siamo ottavi nella classifica costruttori e abbiamo fatto l’ennesima figura di merda».
«Occhio alle parole, ragazzina! Ci sono microfoni ovunque. E sorridi, diamine», ordina Brandon, con quel suo tono dispotico che odio a morte.
Lui lo sta facendo. Io resisto alla tentazione di alzare il dito di mezzo. Perché, al contrario della povera illusa che Woolf sta sfoggiando come un trofeo di caccia da almeno due gare, io verrei immortalata di sicuro.
La principessina VanDeBüker che mostra il medio al Team Principal e CEO della VanBüker Motors durante l’ultima gara del mondiale? Scandalo!
Ci avviciniamo sotto il palco, basta mostrare i nostri pass e le transenne si aprono come il Mar Rosso. Finalmente Brandon si decide a mollarmi, avanza a spintoni verso l’area sotto il podio e dispensa strette di mano e pacche sulle spalle a chiunque si trovi davanti. Batte le mani, finge una sportività che non gli appartiene affatto.
E la sua tranquillità è solo apparenza. Io vado oltre quel suo atteggiamento sicuro e la boria di cui si gonfia. Ma, soprattutto, io so una cosa che non sa nessuno e che la ruga profonda che gli solca a metà la pelle fra le sopracciglia mi conferma: è nella merda.
Perché i soldi sono finiti.
Gli sponsor si sono dileguati.
I debiti, presto, lo mangeranno vivo.
Papà credeva tantissimo in questa squadra, come mio nonno prima di lui. Gli ha ceduto la sua anima, ha sputato sangue, era riuscito a portarla così in alto da vincere il mondiale costruttori e piloti per dodici anni, sotto la sua direzione. Era tutta la sua vita. E Brandon, con la sua presunzione infinita e incompetenza, è riuscito a vanificare decenni di duro lavoro in soli quattro campionati.
Mio fratello parla della VanBüker Motors al plurale, cerca di convincermi che siamo una squadra, io e lui, ma non lo siamo affatto. Me ne frego intensamente della società che abbiamo ereditato quando papà è morto in un terribile incidente stradale, lasciandoci orfani. O, forse, quando hai ventitré anni non puoi davvero considerarti orfana, forse sei solo una che non ha più i genitori. Non lo so, non è nemmeno il momento di porsi il problema, perché James l’Invincibile Woolf sale sul gradino più alto del podio e la folla va in visibilio. Concede un inchino, che è un po’ il suo marchio di fabbrica.
Ventuno gare, quindici vittorie.
Lo è, invincibile.
E se sono abbastanza obiettiva da ammettere che è un fuoriclasse, non posso impedirmi di constatare che è un pallone gonfiato dall’ego smisurato e con le orecchie a sventola. E come essere umano non vale una cicca.
Incrocio le braccia al petto, sto sognando il mio Daiquiri alla fragola servito sul ponte prendisole del nostro yacht – che non ci possiamo più permettere, ma che mio fratello non si decide a vendere – ormeggiato a Yas Island. E voglio togliermi questo ridicolo completo da brava ragazza che Brandon mi ha costretta a indossare. Dio, il rosa pallido fa schifo!
Partono gli inni nazionali, James si porta una mano sul cuore, ritira il suo trofeo, poi scuote forte la bottiglia di acqua di rose che gli passano e affoga letteralmente i suoi colleghi e il suo ingegnere di pista.
Io sbadiglio. Brandon, accanto a me, alza il pollice verso Woolf e lui risponde con un occhiolino.
Per un secondo mi domando se ci sia del tenero fra i due, poi torno a farmi i fatti miei, perché la vita sessuale di mio fratello mi interessa tanto quanto l’estinzione delle api dal pianeta Terra: meno di zero.
«Stasera abbiamo ospiti a cena, sulla Madeline».
Sbuffo. «Sul serio?! Sono cinque giorni che abbiamo gente intorno. Non puoi portare i tuoi ospiti a un qualunque ristorante negli Emirati Arabi? Devi per forza farli venire tutti sullo yacht? Io sono stanca e vorrei andare a dormire presto».
«Questo è un incontro speciale. Abbiamo bisogno di privacy».
I suoi sono tutti “incontri speciali”. Dov’è la novità? Recupero il mio cellulare, scorro fra le varie notifiche, controllo per la centesima volta l’orario di imbarco sul volo che mi riporterà a casa, in Inghilterra, domani pomeriggio. Le quindici e trenta sembrano lontanissime.
Quando tutto finisce, quando le telecamere si spengono e i meccanici e gli ingegneri fanno ritorno ai rispettivi box, tiro un sospiro di sollievo.
«Io torno sulla Madeline».
Brandon solleva appena il mento, soppesa le mie parole, alla fine annuisce. «Va bene, vai», dice, come se avessi bisogno del suo permesso. «Io rimango qui ancora un po’. Di’ all’autista di ripresentarsi subito al circuito e di aspettarmi. Vado in hotel, mi cambio e ti raggiungo».
«Addio».
Brandon dorme al W Abu Dhabi, il resort costruito all’interno del Yas Marina Circuit – quello che ricorda due fagioli uniti da una passerella in acciaio e vetro, sospesa sopra uno dei rettilinei della pista – mentre io preferisco rimanere sulla Madeline, quando è a disposizione.
Giro sui tacchi, letteralmente, e sfilo davanti al team della VanBüker al completo, che non prova nemmeno a salutarmi. Sanno benissimo che non ricambierò.
E la colpa è soprattutto di Brandon, che mi costringe a sorridere e a fare la svenevole davanti ai pezzi grossi di questo assurdo mondo, ma che mi vieta categoricamente di interagire con i ragazzi del team.
Piloti compresi.
Io mi adeguo in parte, non sono comunque una dal sorriso facile.
Getto uno sguardo nel garage della Finardi Motori, quando ci passo davanti. Tommaso non si è presentato negli Emirati Arabi con la sua famiglia, mentre Roman, il loro primo pilota, deve essere già nel suo motorhome a cambiarsi. Lo chiamerò più tardi. Immagino non sia felice di com’è andata la sua gara: con quel quinto piazzamento, ha chiuso il mondiale piloti solo al quarto posto.
Roman Evrard e Tommaso Finardi sono gli unici esseri umani che mi faccia piacere frequentare durante le lunghe trasferte in giro per il mondo. Il primo, belga con lontane origini irlandesi, con gli occhi più verdi che abbia mai visto, lo conosco da quando gareggiava con Brandon con i kart. Tommaso, al contrario, milanese di buona famiglia, lo conosco da sempre.
Una giornalista mi viene incontro con il suo microfono, che mi punta addosso come fosse un fucile.
«Signorina VanDeBüker…», sta dicendo.
«No comment», replico.
Ma lei e il suo cameraman non mollano. Mi tallonano fino all’ingresso del paddock, dove so che l’autista mi sta aspettando per scortarmi fino al porto.
«Cosa direbbe suo padre, se fosse ancora in vita, di questa ennesima sconfitta?».
«No comment».
Le frecciatine su mio padre mi mettono sempre sulla difensiva. Ricevo questa stessa domanda a ogni gara, da quattro anni.
Cosa direbbe mio padre se fosse ancora vivo? Cioè, se invece di schiantarsi contro un muro, a duecento all’ora, con in corpo una bottiglia di whiskey, fosse ancora qui tra noi, oggi, cosa direbbe? Beh, probabilmente si lascerebbe sfuggire un “bella merda!”.
«Charlotte… i fan della VanBüker Motors vogliono sapere».
Mi fermo di botto, il cameraman non se lo aspetta e l’inquadratura, invece di seguire me, punta per qualche secondo contro una delle palme abbellite da lucine intorno al tronco.
«Cosa vogliono sapere i tifosi, esattamente? Cosa direbbe un uomo morto? Come ti permetti di farmi una domanda del genere?!».
La giornalista ci rimane di sasso, la telecamera mi sta di nuovo inquadrando. Tengo le sopracciglia appena sollevate e le rivolgo una smorfia saccente.
«Appunto», concludo, quando lei non osa ribattere.
Me ne vado, lei non prova nemmeno a corrermi dietro. Le sento solo dire: «Taglia. Questo pezzo non lo mandiamo in onda».
C’è un motivo se subisco questa tortura nove mesi l’anno: soldi.
Nonostante detenga il dieci per cento delle azioni della VanBüker Motors, ho zero potere decisionale e non posso accedere ai miei fondi. Brandon mi passa un compenso da fame per presenziare al suo fianco a tutte le gare e sorridere quando una stupida macchina fotografica mi punta il suo obiettivo in faccia. Io obbedisco solo per metà. Non sorrido a beneficio dei giornalisti curiosi e insistenti, non rispondo con educazione alle loro domande prive di senso. Però mi presento alle gare, alle prove, alle qualifiche, alle cerimonie di benvenuto, ai gala pretenziosi, alle cene interminabili.
Laurearmi in Storia dell’arte era il mio sogno, peccato che i sogni non paghino i miei vizi e non ci sia la fila fuori dalla mia porta per assumere un’esperta in sculture neoclassiche. Viene fuori che il mio cervello è intriso di nozioni di cui non frega un cazzo a nessuno. Quindi, sono a tutti gli effetti una disoccupata senza prospettive. Non aiuta il fatto che, nella cortissima lista di referenze sul mio curriculum, le voci che spiccano maggiormente siano: viziata, permalosa, immatura e, beh, stronza!
A conti fatti, non ho alternative se non accettare quei pochi soldi che mi passa mio fratello e fingere che mi interessi qualcosa dell’azienda di famiglia.
Ci penso mentre attraverso il paddock, ci rifletto mentre salgo sulla Lexus nera presa a noleggio, ci sto ancora rimuginando quando oltrepasso la passerella dello yacht e mi sfilo le Manolo.
Non importa da quale prospettiva guardi la mia vita, il risultato è sempre lo stesso: sono un burattino nelle mani di Brandon VanDeBüker e sono schiava di questo sport.
Ma poteva andarmi peggio. Potevo nascere povera.
Pagine: 446
Genere: Sport Romance – Enemy to Lovers
Editore: Self-publishing
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Prezzo Amazon cartaceo: 13,90
Data di uscita digitale e cartaceo Amazon: 20 settembre 2021